Famiglia chiusa, Famiglia aperta. (1973)
Di Colin Ward;
( tratto da “LA PRATICA DELLA LIBERTÀ” Elèuthera Editore
1996.)
La
rivoluzione sessuale che tanti progressi ha fatto nel nostro tempo è una
rivoluzione
essenzialmente
anarchica, in quanto implica il rifiuto di attribuire un qualsiasi valore e
autorità alle regole che lo Stato o le varie istituzioni religiose vorrebbero
imporre agli individui. E possiamo affermare che se ha fatto tanti progressi
non è certo a causa di quella «disgregazione
della famiglia» che i moralisti (abbastanza a sproposito) sembrano vedere
dovunque, ma perché nella società occidentale un numero sempre crescente di
persone decide di condurre la propria vita sessuale secondo i propri criteri.
Coloro che hanno profetizzato terribili
conseguenze - bambini non voluti, epidemie di malattie veneree... - che
risulterebbero dalla più ampia libertà sessuale di cui godono i giovani, sono
di solito impegnati a preparare l’adempimento delle loro profezie opponendosi
alla libera distribuzione di anticoncezionali ai giovani e a un atteggiamento
verso il problema delle malattie veneree che elimini ogni mistificazione e ogni
marchio di infamia.
Lo
Stato ha ereditato dalla Chiesa il suo codice ufficiale in materia sessuale, ma
è diventato sempre più difficile mantenerlo visto il progressivo declino dei
presupposti ideologici su cui si basava. Alcuni teorici anarchici, da Emma Goldman a Alex Comfort, hanno
sottolineato la connessione esistente tra repressione sessuale e repressione
politica; e anche se sembra troppo ottimistico pensare, come fanno alcuni, che
la liberazione sessuale stia aprendo la strada alla liberazione politica ed
economica, è indubbio che per i singoli individui abbia allargato la strada verso
la felicità. Se osserviamo la grande varietà di comportamenti socialmente
riconosciuti e di legislazioni in materia sessuale, riscontrabili in periodi
diversi e in Paesi diversi, risulta evidente che non esiste una base naturale
immutabile per un codice di comportamento sessuale.
L’omosessualità
maschile è diventata un «problema» da quando è stata fatta oggetto di
regolamentazione
legislativa. L’omosessualità femminile
non è mai stata un problema solo perché i legislatori (maschi) ne hanno sempre
ignorato l’esistenza. È divertente considerare la trattazione legislativa
delle cosiddette perversioni: «Chi sa
spiegare per quale ragione il coito anale in Scozia sia legale tra uomo e
donna, e illegale tra uomo e uomo? E perché in Inghilterra sia considerato invece
illegale tra uomo e donna, e legale tra due uomini purché entrambi
maggiorenni?» [1.]
Le
sottigliezze legali escogitate nel tentativo di rendere più razionale la
legislazione in materia sessuale ne rendono più evidente il carattere di
assurdità. Ma questo significa che non esiste alcun codice razionale di
comportamento in campo sessuale? No, soltanto è molto difficile individuarlo nel
cumulo di norme irrazionali e di proibizioni irrilevanti con cui è stato
confuso. Alex Comfort, che ha definito il sesso «lo sport umano più salutare e importante», ritiene che «attualmente tra le diverse culture varia
molto meno il contenuto della sessualità che non la capacità individuale di goderne
senza sensi di colpa». Egli formula due comandamenti o precetti morali
riguardo al comportamento sessuale: «Non
sfruttare i sentimenti di un altro» e «non
causare mai la nascita diun bambino non voluto». L’averli definiti
«comandamenti» diede lo spunto a un’obiezione, formulata da Maurice
Carstaire: perché mai egli, pur essendo anarchico, aveva prescritto delle regole?
Comfort rispose che una filosofia della libertà esigeva livelli molto più alti
di responsabilizzazione individuale che non la fede nell’autorità. Sottolineava
inoltre che la mancanza
di
avvedutezza e l’irresponsabilità, che caratterizzano spesso il comportamento
degli adolescenti odierni, è una conseguenza dell’aver prescritto un insensato
dovere di castità invece di princìpi «immediatamente
comprensibili e accettabili da qualsiasi giovane intelligente» [2].
Non
bisogna certo essere anarchici per rendersi conto che la moderna famiglia nucleare risponde in modo inadeguato e soffocante
ai bisogni naturali di avere una casa e dei bambini, imponendo tensioni
intollerabili a molte delle persone che vi sono intrappolate. Edmund Leach ha
scritto: «Lungi dall’essere la base di
mia buona società, la famiglia, con la sua intimità soffocante e le sue segrete
ferite, è la causa di tutte le nostre insoddisfazioni» [3.] David Cooper
l’ha definita «l’ultima e più letale camera a gas della nostra
società», e Jacquetta Hawkes ha detto che «è una struttura che pone delle spaventose pretese nei confronti degli
esseri umani in essa intrappolati, che si trovano gravati dal peso della
solitudine, da eccessive richieste, da carenze e tensioni»[4].
Certamente
ad alcuni di noi sembrerà ancora la soluzione migliore, ma che alternative ci
sono, all’interno di questa società, per tutti gli altri, il cui numero si può
facilmente indovinare ponendosi la domanda: quante famiglie conosco che si
possano dire felici?
Consideriamo,
ad esempio, il caso di un Mario Rossi. Sulla base di un po’ di serate felici
trascorse
in discoteca, egli stipula, di fronte allo Stato e/o a qualche ente religioso,
un contratto matrimoniale con Maria, barattando l’impegno a vivere insieme
tutta la vita con l’autorizzazione ad avere rapporti sessuali. Ipotizzando che
abbiano risolto il problema di trovare un posto in cui vivere, osserviamoli un po’ di anni più
tardi. Mario si dibatte ogni giorno fra casa e lavoro, e si sente preso in
trappola. Maria ha la stessa sensazione nella sua vita isolata e solitaria di
casalinga, sprecata tra il lavandino e la lavatrice. E anche i bambini si
sentono in una gabbia, e sempre di più man mano che crescono. Perché la mamma e
il papà non si rendono conto che staremmo tanto bene senza di loro? Non c’è
bisogno di proseguire con questa storia, ognuno di noi la riconosce nel suo passato.
Se
consideriamo le possibilità di realizzazione e felicità individuale, la
famiglia attuale è certo meglio di quella ottocentesca e delle varie
alternative di tipo istituzionale immaginate dagli utopisti autoritari. E
inoltre, se è vero che al giorno d’oggi non ci sono più molti ostacoli al fatto
che ognuno viva come gli pare, dobbiamo però tener presente che, nei fatti,
ogni aspetto della società in cui viviamo è modellato a misura della piccola
unità di consumo costituita dalla famiglia nucleare. Come si può trovare casa, ad esempio, se i
piani comunali per l’edilizia non considerano le unità non standard e nel
settore privato non vengono concessi mutui o prestiti alle comuni? I ricchi possono
sfuggire alla trappola con l’espediente di pagare qualcun altro che si occupi
dei bambini e delle faccende domestiche.
Ma la maggior parte delle famiglie sono
investite da una serie di funzioni che non sono in grado di assolvere.
Accettiamo questo sistema solo perché, nella nostra società, non esistono alternative. E infatti gli
unici casi, citati da Leach, in cui i bambini «vengono allevati nell’ambito di gruppi allargati, che fanno perno
sulla comunità e non sulla cucina materna» sono il kibbutz israeliano e la
comune cinese. Ma molte cose sono sul punto di cambiare anche da noi: c’è la
crescita del movimento di liberazione della donna, che sottolinea come un
presupposto dell’emancipazione femminile sia il superamento della famiglia
nucleare, basata sull’oppressione della donna. Ci sono gli esperimenti di
comuni o di gestioni domestiche collettive, che senz’altro nascono anche dalla necessità di suddividersi
gli affitti sempre più alti, ma sono soprattutto una reazione al carattere di
chiusura soffocante delle piccole cellule familiari.
Il
fatto che esistano coppie infelici per la loro sterilità, quando in altre ci
sono troppi bambini non voluti o trascurati, testimonia di quanto sia ancora
forte la mistica della parentela biologica. Essa concorre inoltre ad alimentare
quella tipica situazione che vede l’attaccamento morboso ei genitori ai figli,
nei quali hanno investito gran parte del loro capitale emozionale, e il
disperato tentativo dei figli di sottrarsi a questo amore troppo possessivo.
«La vita familiare», scrive John Hartwell, «significa spesso un’atmosfera
soffocante in cui i rapporti tra le persone sono ridotti a ima farsa, e in cui
viene represso ogni barlume di creatività, considerato sintomo di devianza» [5].
Anche se siamo ancora lontani da un tipo di comunità in cui sia data la
possibilità ai bambini di scegliere tra parecchie figure genitoriali quella a
cui preferiscono legarsi, sono state però avanzate delle ipotesi interessanti,
tendenti tutte al superamento della famiglia tradizionale a vantaggio sia dei
genitori sia dei figli. C’è la proposta avanzata da Paul e Jean Ritter di una
«casa dei bambini» che colleghi da venticinque a quaranta famiglie per
quartiere6; c’è l’idea di una «casa dei giovani» che Paul Goodman ha ripreso da
una analoga istituzione presente presso alcuni popoli «primitivi»; e c’è il suggerimento,
avanzato da Eddy Gold, di Unità d’Abitazione Multiple che raccolgano varie famiglie
[7]. Queste proposte non si basano affatto su un rifiuto di riconoscere le
proprie responsabilità verso i bambini, implicano anzi un assunzione di
responsabilità da parte dell’intera comunità ed implicano l’accettazione del
principio, espresso da Kropotkin, che tutti i bambini sono nostri figli.
Proposte di questo tipo vogliono inoltre favorire la responsabilizzazione dei
bambini stessi
nei confronti della comunità, superando una tipica carenza della famiglia
tradizionale.
Le
aspirazioni e i bisogni di ciascuno sono così diversi che sarebbe assurdo
suggerire alternative stereotipate,
come è assurdo che si esiga una conformità universale al modello ora esistente.
Da
una parte dobbiamo constatare la deformazione caratteriale prodotta nel bambino
dalle
carenze
della struttura familiare, che si manifestano ad esempio sotto forma di
possessività o di perpetuazione forzata di un ambito di rapporti ormai
inadeguato. Dall’altra, però, ci troviamo di fronte, nel caso dei bambini allevati
in istituti, a un irreparabile impoverimento affettivo dovuto alla mancanza di
rapporti personalizzati. Dal momento che tutti conosciamo il tipico ambiente familiare,
permeato da rapporti affettivicasuali e in cui vengono suddivisi il lavoro
domestico e la responsabilità, possiamo immaginare facilmente una gestione
domestica collettiva in cui, oltre alla più ampia collaborazione nelle
questioni pratiche, sia garantita ad ogni bambino, anche il più diffìcile, una
quantità sufficiente di affetto e attenzione. Più importanti della struttura
della famiglia sono le aspettative con cui vengono investiti i ruoli al suo
interno. Il tiranno domestico della famiglia vittoriana poteva esistere solo
perché gli altri componenti erano disposti a tollerarlo. Significativo è lo
slogan coniato tempo fa nell’ambito della pedagogia progressista: Generateli, amateli e lasciateli in pace.
E questo, lo ripeto, non vuole essere un invito al disinteresse, sottolinea invece che una buona metà dei guai
e delle frustrazioni che una persona si trascina dall’adolescenza e nella vita adulta hanno le
loro radici in quella insidiosa attenzione con cui, da bambini, sono stati circondati
per indurli a comportarsi secondo quello che altri ritenevano «il loro bene».
Inoltre, la continua estensione del periodo di scolarità ritarda sempre più per
i giovani il raggiungimento di una reale responsabilizzazione. Chiunque insegni
in una scuola media superiore può osservare una notevole differenza tra i
sedicenni che frequentano dei corsi di specializzazione professionale dopo il
lavoro e i coetanei che sono ancora studenti a tempo pieno. In quei Paesi
arretrati in cui non è stato ancora vietato il lavoro minorile salta
all’occhio, nel panorama di super- sfruttamento, quella precoce maturità dei ragazzi
che deriva dall’assunzione di responsabilità nel mondo reale. I giovani si
trovano in un vicolo cieco: si abbassa l’età media della maturazione sessuale e
del matrimonio (dal momento che la nostra società non lascia ancora molto
spazio alle possibili alternative) e viene contemporaneamente ritardato il
momento dell’inserimento nel mondo degli adulti (nonostante l’abbassamento, dal
punto di vista giuridico, della maggiore età). Non c’è da stupirsi se tanti
adulti sembrano così immaturi.
La famiglia, lungi
dall’essere un modello di società veramente permissivo, si limita ad ostacolare
la crescita delle persone. Ma d’altro lato, il fatto che per una minoranza
di giovani - una minoranza che peraltro è in aumento - i comportamenti e i
ruoli sessuali stereotipati, che per secoli hanno oppresso i loro antenati,
abbiano perso qualsiasi valore, sarà certamente ricordato in futuro come una
delle acquisizioni più importanti del nostro tempo.
Note al capitolo
1. Ian Dunn, Gay Liberation in Scotland, «Scottish International Review», marzo
1972.
2. John Ellerby, The Anarchism of Alex Comfort, «
Anarchy», n. 33, novembre 1963.
3. Edmund Leach, A Runaway World, BBC Reith Lectures,
1967.
4. Jacquetta Hawkes, in C. H. Rolph (a cura di), The Human Sum,
Londra 1957.
5. John Hartwell, «Kids», settembre 1972.
6. Paul e Jean Ritter, The Free Family, Londra 1959.
7. Teddy Gold, The Multiple Family Housing Unit, «Anarchy»,
n. 35, gennaio 1964
Note: Colin Ward (Londra, 14 agosto 1924 - Ipswich, 11
febbraio 2010) è stato uno dei maggiori pensatori anarchici della seconda metà
del XX secolo. Architetto , insegnante, scrittore e giornalista free-lance.[…] Gran parte delle
sue ricerche si occupano dei modi "non ufficiali" con cui la gente
usa l'ambiente urbano e rurale, rimodellandolo secondo i propri bisogni. Ha
così scritto una ventina di libri su temi sociologici e urbanistici come il
vandalismo e gli orti urbani, l'occupazione di case e l'autocostruzione. Si è
inoltre occupato della condizione dei bambini in situazioni urbane e rurali e
ha anche scritto alcuni pamphlet destinati a loro e pubblicati dalla Penguin:
Violence, Work, Utopia. ( ripreso dalla scheda di Elèuthera.)