mercoledì 14 maggio 2014

RIFLESSIONI SULLA PENA DI MORTE- Albert Camus



Poco prima della guerra del 1914, un assassino che aveva commesso un crimine particolarmente rivoltante (aveva massacrato una famiglia di coloni, compresi i figli) venne condannato a morte ad Algeri. Si trattava di un bracciante che aveva ucciso  in una sorta di delirio omicida, ma con l'aggravante di aver derubato le proprie vittime. Il processo suscitò grande scalpore. Generalmente si ritenne che la decapitazione fosse una pena troppo mite per un simile mostro. Questa fu, così mi si disse, anche l'opinione di mio padre, sdegnato soprattutto dall'eccidio dei bambini. Una delle poche cose che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all'esecuzione, per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all'altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno.

Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d'improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più pensare che a quel corpo palpitante sull'asse dove l'avevano gettato per tagliargli il collo. Bisogna dunque ritenere che quest'atto rituale è ben spaventoso, se poté vincere l'indignazione dl un uomo semplice e probo, e se un castigo, da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica. Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all'uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l'ordine in seno allo Stato.

E' invece evidente che essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l'offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango. Lo dimostra il fatto che nessuno osa parlare apertamente di una tale cerimonia. I funzionari e i giornalisti che dovrebbero farlo, quasi fossero coscienti di quanto essa manifesta di provocatorio e di vergognoso, hanno elaborato al riguardo una sorta di linguaggio rituale, ridotto a formule stereotipate.

Così, durante la prima colazione, possiamo leggere in un angolo del giornale che il condannato ha «pagato il suo debito alla società», oppure che ha «espiato», o che «alle cinque giustizia era fatta». I funzionari parlano del condannato come dell'«interessato», del «paziente», oppure lo designano con una sigla: il C.A.M. ["Condanné à mort". N.d.T.]. Della pena capitale si scrive, oserei dire, a voce bassa. Nella nostra civilissima società la gravità di un male è rivelata dalla reticenza con cui se ne parla.
A lungo, nelle famiglie borghesi, ci si è limitati a dire che la figlia maggiore era delicata di petto o che il padre soffriva di un «gonfiore», perché la tubercolosi e il cancro venivano considerate malattie pressoché vergognose. Questo è ancor più vero, non v'è dubbio, riguardo alla pena di morte, visto che tutti s'ingegnano a parlarne per eufemismi. Essa sta al corpo politico come il cancro al corpo dell'individuo, con la differenza che nessuno ha mai parlato della necessità del cancro. Non si esita invece a presentare la pena

di morte come una dolorosa necessità, che legittima dunque a uccidere, poiché è necessario, e a non parlarne, poiché il farlo è sconveniente. E' invece mia intenzione parlarne crudamente……….....

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